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Italia maglia nera d’Europa per le infezioni senza cura

Pillole Antibiotici

Ogni anno un paziente su dieci si ammala a causa dei batteri multi  resistenti. “Alcuni antibiotici non servono più perché ne abusiamo”. Negli ospedali si aspet tano i nuovi farmaci ma i tempi lunghi per la   sperimentazione e i tagli alla ricerca rendono necessarie altre leggi.

A Ignaz Semmelweiss non credette nessuno. Il medico ungherese nato nella prima metà dell’Ottocento scoprì l’origine della febbre che sterminava le donne ricoverate nei reparti di ostetricia. Stabilì una correlazione diretta. La morte delle giovani mamme era conseguenza di pessima abitudine: i medici e studenti che eseguivano le autopsie non si lavavano le mani prima di entrare nella maternità. Semmelweiss impose di farlo, con soluzione di cloruro di calce, e il tasso di mortalità crollò. Tanti ringraziamenti? Macché: fu licenziato, bandito dalla comunità scientifica, beffeggiato e deriso. Finì in manicomio e morì per le botte ricevute dalle guardie. La storia sfortunata di Semmelweiss è un preambolo necessario quando si parla dei batteri super resistenti, quelli che si fanno beffe degli antibiotici e contro i quali la battaglia della medicina è sempre più complessa. Perché ci sono le strategie per affrontarli, gli specialisti studiano le armi per debellarli, la ricerca fa sempre passi avanti, anche se l’Italia rimane in fondo alla classifica dei dati sull’antibiotico-resistenza.

L’allerta dei virologi  

Tutti gli specialisti sono concordi. Il presidio fondamentale per evitarne la diffusione è il più semplice: il lavaggio accurato delle mani. La più elementare delle raccomandazioni, non sempre rispettata. Così anche Giovanni Rezza, dirigente del dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, colloca tra i problemi maggiori dell’Italia in ambiente ospedaliero «le mancate procedure e prassi di igiene, come il lavaggio delle mani tra un paziente e l’altro». Ovviamente, l’igiene non basta. Come ammonisce Rezza, ci sono anche problemi di «abuso, misuso (l’utilizzo scorretto dei dosaggi, ndr), cattivo uso degli antibiotici». Il fenomeno della resistenza dei batteri agli antibiotici è conosciuto da qualche anno, l’Italia è la bestia nera: «Il rapporto di Ecdc dice che l’Italia è proprio il fanalino di coda, ce la battiamo con la Grecia». Ecdc è il Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie, agenzia indipendente della Ue. All’inizio dello scorso anno gli esperti leggono i dati italiani e fanno un salto sulla sedia. Passaggio successivo: ad aprile piombano a Roma, al ministero, in un incontro al quale partecipano anche i rappresentanti delle Regioni italiane.

Dito puntato sull’iper diffusione di antibiotici nel nostro paese e la conseguente criticità: l’aumento delle infezioni da super batteri: «Denotiamo la mancanza di una presa di consapevolezza». Per la Liguria partecipa Roberto Carloni, il direttore di epidemiologia, che racconta: «È stato un momento imbarazzante. Non per noi, ma per il sistema italiano, gliel’ho detto in faccia». Rimandato, rimandatissimo, con l’intimazione di prendere subito dei provvedimenti e l’annuncio di una nuova visita, quest’anno a primavera. La consapevolezza italiana finalmente arriva.

 

Tre anni per recuperare  

Nel novembre dell’anno passato il ministero vara il Pncar, il Piano nazionale di contrasto all’antibiotico-resistenza. Un progetto su tre anni, dal 2017 al 2020. Le pietre angolari? Sorveglianza, prevenzione e controllo delle infezioni, impiego corretto degli antibiotici, formazione, comunicazione e informazioni, ricerca e innovazione. Potrà funzionare? Le perplessità arrivano da Claudio Viscoli, presidente della Società italiana di terapia antinfettiva. «È un progetto che detta linee precise, ma è difficile poterle realizzare in mancanza di adeguate risorse: il solito problema». Ricorda, Viscoli, come l’allarme per la diffusione dell’Aids fu affrontato dall’Italia con una legge e con dei fondi mirati: «Questa invece non è una legge e non ci sono soldi. in queste condizioni, è impossibile sperare nei miracoli, eppure l’antibiotico-resistenza rischia di diventare una grave criticità, non solo nel nostro Paese». Un rischio tradotto in una frase: «Questa è l’unica emergenza medica in cui con i nostri cattivi comportamenti stiamo rischiando di coinvolgere anche le prossime generazioni, i nostri figli e i nostri nipoti, se non interveniamo con decisione».

Fino a oggi, l’allarme è rimasto confinato dentro le mura degli ospedali, nelle sale trapianti, nelle terapie intensive. A far grande paura da noi è soprattutto la Klebsiella Pneumoniae Kpc, che causa polmoniti, infezioni del sangue e del tratto urinario. Un osso duro. Nel nostro paese gli studi rivelano che colpisce sei pazienti ogni diecimila ricoveri, contro una media europea di 1,3.

Un problema grave, come riprende a dire Giovanni Rezza: «Già non è bello se un anziano muore prima di quanto dovrebbe, ma c’è il rischio che un giovane operato dopo un grave incidente, o sottoposto a un trapianto, possa poi essere stroncato da un’infezione». Il collega Viscoli traccia però un’evoluzione delle cose che non può non scatenare nuove preoccupazioni: «Stiamo constatando che questi super batteri non rimangono più confinati dentro le mura dei reparti di ospedale. Stanno uscendo all’esterno, colpiscono anche persone che vivono un’esistenza normale, lontana dalle strutture sanitarie, e che non hanno particolari patologie». Possono essere contratti ovunque, in ogni momento della nostra vita quotidiana.

 

La memoria dei batteri  

La ragione è sempre la stessa: «I batteri sono bravissimi a diventare resistenti». Hanno anche una memoria? Sembra di sì. Così accade che, mentre da un lato prosegue la ricerca di molecole sempre più efficaci, mentre si studiano combinazioni tra vari tipi di antibiotici, i medici stiano utilizzando anche un’altra strategia. Prescrivere antibiotici molto vecchi, ormai caduti in disuso, «nella speranza che i batteri se ne siano dimenticati». Capita che arrivino prescrizioni che fanno sbarrare gli occhi ai famacisti, come la nuova vita di un medicinale vintage come il Bactrim. In alcuni casi funziona. Così come, sull’altro versante, funzionano anche alcuni antibiotici di nuova generazione. Pochi, in realtà, perché l’industria farmaceutica non lo considera un settore particolarmente remunerativo. Un rapporto presentato proprio nei giorni scorsi al World Economic Forum di Davos lo ha evidenziato: «Le aziende farmaceutiche potrebbero fare molto di più contro il fenomeno della resistenza agli antibiotici».

 

Sperimentazioni lente 

I nuovi farmaci, poi, devono (giustamente) seguire la trafila imposta dall’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco. Che provvede a tutte le autorizzazioni e deve anche stabilirne il prezzo. L’iter può durare anche un anno. Nel frattempo? «Nei casi più gravi – conclude Viscoli – le case farmaceutiche ce li concedono, come si dice, per uso compassionevole: gratis». Un’emergenza medica rischia di diventare un’emergenza sociale e se ne devono poi pagare i costi. Uno degli studi più citati anche dagli esperti italiani arriva dalla Gran Bretagna.

È il rapporto “Review on Antimicrobial Resistance”, commissionato e voluto dall’allora premier David Cameron nel 2014. Traccia un futuro a tinte fosche: nel 2050 si potrebbero raggiungere i 10 milioni di vittime all’anno, più di quante ne fa il cancro. Una ecatombe che costerebbe all’economia mondiale 100 mila miliardi, uno scenario degno di un film post nucleare in cui sarà facile morire anche per una semplice infezione. Così come uccidono i germi “alieni” di X-Files. A tirare le fila della relazione, però, non è un medico, ma l’economista Jom O’Neill. Sollecita interventi veloci e incisivi per evitare «il ritorno al Medioevo». Con costi umani ed economici insopportabili. In un contesto a tinte fosche si inseriscono (ma non possiamo averne immediata consapevolezza) le cattive abitudini. La iper prescrizione dei farmaci. Un recente articolo di Ilaria Capua su La Stamparicorda che, in dieci anni, la popolazione dei super batteri in Italia è decuplicata. La parte del leone, nel far degenerare la situazione, sta nella prescrizione troppo disinvolta di antibiotici. Le cifre sono evidenti: «Un italiano che va dal medico di base o che va in ospedale si vede prescrivere un antibiotico nel 43 e 44 per cento dei casi. La media europea è dieci punti sotto: 34 e 33 cento».

Perché tanta abbondanza? «Perché pazienti e parenti denunciano», commenta Viscoli. È il tema della medicina difensiva che affligge l’Italia. Io, medico, mi proteggo da eventuali, future denunce prescrivendo anche quando non sarebbe necessario al cento per cento. In caso di complicazioni, potrò sempre dire di aver messo le mani avanti. Certo, intervengono anche cattive abitudini tipiche di una popolazione tradizionalmente poco incline ad attenersi alle regole. Un esempio: io, nel ruolo di paziente, smetto improvvisamente di prendere il medicinale non appena mi sento meglio. Questo è un comportamento che genera resistenza. Non ho eliminato il batterio, che anzi ha così modo di immagazzinare tutte le informazioni che servono alla sua sopravvivenza. Di più: la prossima volta che accuserò di nuovo gli stessi sintomi, farò una “autoprescrizione” senza consultare il medico. Magari andando a scaravoltare quel cassetto che esiste in ogni casa e che contiene tutte le confezioni non completamente utilizzate di medicine.

 

Il nodo delle prescrizioni  

Sulla mancata corrispondenza tra le terapie e le confezioni ha da tempo puntato l’indice Pier Luigi Bartoletti, vicepresidente dell’Ordine dei medici di Roma. «Ma da quando ho lanciato l’allarme – spiega – non è cambiato nulla. La verità è che quasi tutti gli antibiotici sono venduti in confezioni tutt’altro che ottimali.

Il problema sono gli “avanzi” autogestiti. Un esempio: ci sono farmaci venduti in confezioni da cinque, ma non bastano con la terapia completa e così io, medico di famiglia, ne devo prescrivere due confezioni. Ma due sono troppe: avanzerà quasi sempre qualche pastiglia».

Non è così in Germania, o anche negli Usa: in farmacia mi consegneranno il numero esatto di pastiglie prescritte. «Da noi no – prosegue Bartoletti – e così quando c’è il nonno che tossisce, il nipote gli dice: prendi questo, è buono, a me ha fatto bene. Magari dopo tre pillole il nonno sembra star meglio, la terapia viene interrotta ma la volta dopo quel batterio ha generato resistenza all’antibiotico. E per il nonno sono guai. O per noi, che abbiamo preso quelle pastiglie senza chiedere di nuovo al medico cosa fare».

Fonte: La Stampa

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